Dopo l’inserimento come appendice nel Beer Judge Certification Program, le Italian Grape Ale hanno iniziato a suscitare curiosità e interesse in Italia e nel mondo. Ma cosa sono le IGA? 

Italian Grape Ale: cosa sono?

Fondamentalmente, per il BJCP sono un sottogruppo delle Fruit Beer (cat. 29), ovvero birre prodotte con frutti solitamente dolci o acidi, con semi, edibili crudi. Nelle IGA, la varietà di frutti si riduce alla sola uva. Questa può essere aggiunta come acini spremuti (tecnicamente: uva ammostata) oppure come succo (il cosiddetto mosto). Sarebbe possibile utilizzare anche prodotti successivi alla semplice spremitura ­fino addirittura al vino stesso. ­In Italia ciò non è possibile per via delle leggi vigenti che regolamentano la produzione di birra e vietano la miscelazione di alcoli differenti. Ovvero è proibito chiamare “birra” un prodotto miscelato al vino.

Un po’ di storia

Nonostante sia dato per assodato, non ho prove o conferme che effettivamente questo stile sia nato in Italia, ma verosimilmente corrisponde al vero. A memoria, Il primo birraio che io ricordi essersi cimentato con il mosto d’uva è stato Nicola Perra, del Birrificio Barley, nel 2006. Nel medesimo periodo, iniziammo anche il mio socio e io, come homebrewer, a sviluppare il nostro prototipo di IGA, con aggiunta di mosto di Moscato in fermentazione. Birra che poi vide la luce nel 2008 grazie a un progetto di beer firm, all’avanguardia per l’epoca: Birra 1789, con Lelio Bottero di Birra Carrù e Giorgio Malino (attuale proprietario del marchio 1789).

 
Dopo poco, vennero fuori parecchi altri ottimi esempi, eterogenei tra loro, di cui ricordo alcune produzioni di elevata qualità come la Beerbera di Loverbeer, la Limes di Bruton e la Jadis di Toccalmatto.

IItalian Grape Ale: la Beerbera di Loverbeer

le iga di Sagrin

Quando decidemmo di aprire il nostro birrificio, eravamo talmente convinti del potenziale di questo stile “pioneristico” da voler rendere immediatamente disponibile la nostra IGA al Moscato, su cui tanto avevamo lavorato, e producemmo quindi la nostra prima Samos. Fu l’inizio di un lavoro volto a creare un legame, un rapporto stretto col territorio, che rappresenta il nocciolo della nostra filosofia. La grande opportunità di legarsi alle zone in cui viviamo, tramite l’utilizzo dell’uva stessa. Avere la fortuna di vivere in queste terre ha fatto sì che la scelta di vitigni autoctoni potessero essere la giusta carta da giocare. A poca distanza dalla prima, sono nate le altre due IGA: la Roè, con mosto di Arneis del Roero, e la Monfrà, con mosto di Barbera di Nizza Monferrato. 

Il fulcro della nostra filosofia è proprio l’utilizzo di vitigni che hanno salde radici nel territorio della nostra regione, uno stretto legame identitario che ci permette di creare una birra che ha il vessillo italiano cucito a doppio filo su di sé. Ma non solo: questo è anche un ottimo modo per utilizzare un ingrediente tipicamente italiano e locale in un prodotto, la birra, ­ che quasi sempre utilizza materie prime che arrivano da altre nazioni.

Beppe Luci e Matteo Billia del birrificio Sagrin

I lieviti da vino

Non paghi di quanto realizzato finora, abbiamo anche imboccato una nuova strada nella produzione di IGA, ovvero l’utilizzo di lieviti selezionati per il vino. Per motivi tecnologici, non abbiamo mai avuto grandi soddisfazioni dall’utilizzo di questi lieviti, ma, dopo parecchi anni di test e prove, abbiamo trovato quella che per noi è una via molto interessante, che ci coinvolge ancora di più nel mondo del vino. Con l’utilizzo di particolari enzimi (resi famosi dall’uso fattone nella produzione delle cosiddette Brut IPA), abbiamo creato l’ambiente ideale per la fermentazione con i lieviti da vino selezionati. Questo ci ha permesso di dare alla luce la nostra seconda IGA con mosto di Moscato: secchissima, totalmente fermentata, senza zuccheri residui, ma fortemente aromatica ed equilibrata. Crediamo di essere di fronte a una nuova rotta e ne siamo entusiasti.

 

Tecniche alternative

Le Italian Grape Ale però non si fermano qua. Il vasto cosmo di questo stile comprende un novero di tecniche e materie prime differenti e davvero interessanti. Vale la pena evidenziare che oltre al mosto, per la produzione di quelle IGA più “wild”, è spesso utilizzata uva intera e pigiata, dove la fermentazione è innescata proprio dai lieviti indigeni presenti sulla buccia del frutto.
Riguardo ancora al mosto, una tecnica alternativa all’aggiunta a crudo in fermentazione consiste nell’unione a caldo, durante gli ultimi minuti di bollitura o nella fase calda di whirlpool.

I vantaggi risiedono nella possibilità di abbattere notevolmente l’eventuale carica batterica presente, anche se a costo di perdere alcuni profumi. Spesso, con questo metodo si utilizzano percentuali molto più alte di mosto, per ovviare proprio a questo problema.

le iga sono sour?

Il BJCP non inserisce fra le IGA le birre “sour”, acide o brettate. Secondo me, questi sottogruppi sono invece degli ottimi esempi di inventiva italica e dei prodotti molto godibili, a patto che vengano adeguatamente categorizzate e spiegate al consumatore finale.
Unionbirrai, per il concorso Birra dell’anno, ha intelligentemente distinto tre categorie che fanno riferimento al “macrostile IGA”, suddividendole in: 

  • IGA con uva a bacca bianca;
  • IGA con uva a bacca rossa;
  • IGA “sour” o acide. 

Penso che sia un ottimo modo per mostrare al consumatore che nella variegata galassia delle IGA possono coesistere esemplari radicalmente diversi gli uni dagli altri, frutto dell’inventiva e del “tocco” di ogni singolo birraio, che testimoniano come le Italian Grape Ale rappresentino una costellazione dai confini molto sfumati nel gran universo della birra.

Le Italian Grape Ale sono uno stile giovane, ma come anticipato a inizio articolo, attrae parecchia curiosità ed è un’occasione unica per far sventolare il vessillo del movimento birrario italiano.

 

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